Proponiamo la traduzione dell’articolo di Sarah Green pubblicato su HBR

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Non vedo l’ora di leggere tutte le testate che dicano quanto sia bello essere nell’industria mediatica. Dopotutto, in un solo minuto gli utenti di YouTube visualizzano 100 ore di video – in aumento del 233% rispetto all’anno precedente (qz.com). È in aumento anche il numero di dispositivi che le persone usano per “consumare contenuti”

–  termine polisemico ed indolore utilizzato per indicare l’azione di leggere, guardare ed ascoltare: un’indagine di Cisco ha ipotizzato che, entro la fine dello scorso anno, il mondo avrebbe posseduto più dispositivi mobili che persone (mashable.com), mezzi sempre più usati per cercare e condividere informazioni piuttosto che per fare vere e proprie chiamate telefoniche ai propri cari. A proposito di questo, si è talmente innamorati dei contenuti che si passa più tempo a guardare il cellulare (link) che i propri compagni; il tempo impiegato a ricercare informazioni è addirittura in aumento. Nel 2010, l’Americano medio ha passato 10 ore e 46 minuti al giorno a consumare contenuti; nel 2013 quel numero è aumentato fino a raggiungere le 12 ore e 5 minuti (www.emarketer.com – link).

Nonostante ciò la maggior parte delle copertine dell’industria mediatica è penosa – un rimpianto per i tempi in cui si stampava. Perciò, anche quando la notizia è bella, l’intestazione non lo è altrettanto.

 

Prendiamo in esame il recente articolo di David Carr sul New York Times (nytimes.com- link) a proposito della rivista New York (http://nymag.com/), un perfetto esempio di inutile preoccupazione difronte ad un’industria in transizione. Leggendolo, si scopre che:

 

  • Il New York è passato da 42 a 29 uscite all’anno
  • Non sono previsti licenziamenti
  • Verranno assunti 15 nuove impiegati nell’area digitale
  • Il sito nymag.com ha riscontrato un aumento di visite del 19% negli ultimi 8 mesi
  • The Cut, rubrica di successo di nymag.com specializzata nella moda, sarà integrata nella rivista rinnovata
  • Le entrate digitali stanno crescendo del 15% anno dopo anno e, nel 2014, supereranno le entrate della pubblicità cartacea
  • Le entrate con il cartaceo sono diminuite, con una riduzione degli spazi pubblicitari del 9,2% rispetto all’anno precedente
  • Solo il sito attrae 9 milioni di visitatori al mese mentre la rivista cartacea ha una tiratura di 400.000 copie
  • Nel 2013 è stato eletto “Magazine of the Year” (Rivista dell’Anno) dalla American Society of Magazine Editors.

 

Considerando queste informazioni, avrei voluto scrivere un articolo che iniziava così:

 

La rivista New York sta continuando la sua corsa verso il successo. La diffusione online e le vendite stanno crescendo a ritmo doppio, il settore digitale assumerà 15 nuovi impiegati e la sua parte online, The Cut, è diventata così popolare da essere integrata nell’edizione rinnovata della rivista, in arrivo a Marzo. L’edizione cartacea riorganizzata sarà composta di 13 uscite in meno all’anno ma, nonostante questa diminuzione nella frequenza, non sono previsti licenziamenti. La rivista ha vinto, nel 2013, il prestigioso premio ASME “Magazine of the Year” – anche detto premio “Best Picture” (Migliore Immagine) per le riviste, se vogliamo citare gli Oscar.

 

Confrontiamolo adesso con l’inizio del pezzo di Carr:

 

Sin dalla sua fondazione nel 1968, la rivista New York è stata considerata come un prototipo di pubblicazione letteraria ad alto ritmo che, attraverso una cadenza settimanale e la sua posizione in una delle capitali culturali del mondo, ha inaugurato un approccio nuovo, più intimo e più schietto al mondo dell’editoria.

 

… Ora questa rivista, che per quasi cinquant’anni è stata fra le avanguardie dell’editoria di Manhattan, si sta rendendo conto che la svolta non è necessariamente di tipo lucrativo o sostenibile, almeno nello stesso programma.

Oserei affermare che forse, in questo momento, la svolta è online, dove il solo sito del New York ha più importanza della stessa città omonima.

Nonostante ciò, Carr si approccia alla storia come se il primato della stampa sul digitale fosse una verità matematica, come se stampa < digitale desse come risultato = negativo. Usando parole come “triste” e “perduto”, Carr rimpiange il “ritiro” del New York come “la fine di un’era”, ammettendo di avere gli occhi “lucidi” mentre riepiloga i conflitti di Newsweek, una rivista simile a New York solo nel modo in cui Hindenburg assomiglia all’omone della Goodyear. Stessa forma, ma contenuto molto diverso.

 

Mi è venuto in mente di come, l’anno scorso, la Encyclopaedia Britannica abbia ricevuto un simile giudizio negativo (http://mediadecoder.blogs.nytimes.com/2012/03/13/after-244-years-encyclopaedia-britannica-stops-the-presses/) in seguito all’annuncio di fine stampa delle enciclopedie cartacee, tuttavia quei volumi di finta pelle rappresentavano solo l’1% del loro volume d’affari al momento della sospensione del prodotto. Jorge Cauz, presidente della Britannica, scrisse per l’occasione su HBR (http://hbr.org/2013/03/encyclopaedia-britannicas-president-on-killing-off-a-244-year-old-product/ar/1) che “I commentatori ci avevano fatto capire che avevamo ‘ceduto‘ ad internet. Internet, infatti, ci aveva dato la possibilità di reinventarci ed aprire nuovi canali di business”. Sembra di sentire ciò che è avvenuto al New York, che si trova ora nella posizione di liberarsi da un mercato in declino ed investire in uno nuovo in crescita. Tutte le aziende dovrebbero essere così fortunate.

 

C’è un problema, ovviamente, in campo mediatico, che non riguarda le abitudini dei lettori, ma su cui si focalizzano tanti esperti (sturm und drang) dell’industria giornalistica: si tratta delle abitudini pubblicitarie. In passato gli editori investivano denaro nella stampa; oggi invece, fino ad ora, hanno investito solo pochi centesimi per il digitale. Ciò non ha alcun senso per me: la marca è la stessa, ed anche il contenuto. La diffusione, però, è più conveniente, ed è anche un tipo di pubblicità più personalizzabile. Adesso, inoltre, i pubblicitari possono anche tenere monitorata l’efficacia della loro creatività! Con tutti questi miglioramenti una pubblicità digitale dovrebbe valere realmente di più per un esperto del settore rispetto a quella cartacea. Dopotutto i modelli, durante il giorno di Don Draper, non hanno mai saputo quante persone sono andate oltre i loro slogan piccanti e le scritte attraenti; ora la tecnologia fa sì che questa sia una cosa possibile ed ovvia. Questa è una sfida per i pubblicitari ma, siamo sinceri: la sfida non riguarda i consumatori mutevoli, l’ultimo gioco per cellulare o che “i bambini oggi non leggono” (anche se in realtà (http://www.mcsweeneys.net/articles/young-people-are-reading-more-than-you) ). La sfida è proprio quella di trovare nuove strategie di mercato che permettano di fare soldi a partire dal nostro desiderio sempre più insaziabile di contenuti.

 

Quello della pubblicità è oggi un settore dinamico, in espansione – ma anche in rapido cambiamento. Come accade in molti settori in rapido cambiamento, le giuste mosse di mercato non sono certo ovvie, ma la scelta del digitale non dovrebbe essere accolta automaticamente come una brutta notizia: spesso, questa è infatti una buona notizia – significa che il mercato si sta adattando.

 

Perciò, coloro che criticano i media dovrebbero lasciare i loro tristi tromboni a casa: i consumatori non spenderanno di certo meno tempo sui media. Semmai, siamo in pericolo di diventare dei cervelloni con solo gli occhi e i pollici, e delle minuscole gambe atrofizzate che non hanno più abbastanza forza per sollevare dal divano i nostri corpi dimenticati. Questa è una brutta notizia per i nostri fianchi, ma molto bella per i pubblicitari.

Traduzione a cura di Riccardo D’Alessandro